Articoli di Giovanni Papini

Anno 1927


Italia mia...
Pubblicato su: Il Selvaggio, anno IV, fasc. 7, p. 25
Data: 15 aprile 1927


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   Tornato a Firenze qualche giorno dopo seppi ch'era morto Francesco Crispi...
   Ancora oggi non so intender bene le ragioni del mio accoramemto che, per verità, non fu lungo. Non mi impacciavo di politica ma sentii in confuso che finiva con Crispi l'ultimo testimonio del Risorgimento e, nel tempo stesso, la speranza di una muova Italia vittoriosa. Era l'esule del Quarantotto, due volte vincitore in Sicilia, ma anche il vinto di Adua. Aveva guidato Garibaldi, dominato Umberto, domati i tumulti, sognato un Impero di Etiopia. Nel tempo che vano i nostri all'Acque Morte, Crispi era stato l'unico italiano che avesse dato pensieri e timori alla Francia. Le catilinarie di Cavallotti e i giambi di Stecchetti non facevano scordare a noi giovani che Carducci l'amava e che Bismarck lo rispettava. Dopo una malventura coloniale, che parve ai trepidi parlamentari la disfatta di un popolo, il vecchio conquistatore di regni fu licenziato su due piedi, come un servente ladro, ed era morto cieco e solo nel silenzio della circostante paura.
   L'anno prima un giovane settatore ronchioso aveva accoltellato il Re come s'accoltella un rivale — ogni anarchico è un principe impudente — e a distanza di mesi era morto Giuseppe Verdi il contadino appassionato cha aveva commosso tutti i popoli colla sua potenza sublime e plebea.
   Un'epoca finiva in quegli anni: finiva l'avventura del Risorgimento, la galoppata del Romanticismo, l'età dei padri.
   I nati in questo secolo non possono immaginare l'umiliazione di un giovane italiano in quel tempo che corse dal massacro di Dogali alla morte di C:rispi. Sembrava che un gastigo pesasse sulla nazione, che l'altre sopraffacevano senza farle neanche l'onore di odiarla. Perfino il continente più inerme, l'Affrica ci respingeva: s'era rifiutato l'Egitto; s'era arrivati tardi a Tunisi; l'Abissinia ci aveva ributtato al mare dopo Abba Carima.
   Mai dimenticherò la desolazione della mattina di marzo che giunsero le prime notizie di Adua. Il cielo piombagginoso e peso, le strade bigie e sudicie più del solito, le faccie più tetre, il silenzio più grande: silenzio di miseria e di vergogna. Per fino mio padre, che pure era repubblicano, quasi piangeva: Baratieri era stato garibaldino come lui e pareva che gli si disfacesse in cenere una delle ultime leggende che l'aiutavano a vivere. Pochi giorni dopo noi delle scuole ci portarono per un uffizio solenne in S. Croce per i morti d'Affrica. La gran chiesa parata di nero, i cori latini, la romba gemente dell'organo, e tutti i nostri visi di ragazzi pallidi in fila: che tristezza, che pena, che avvilimento! A questo era giunta l'Italia delle storie, l'Italia di Scipione e di Cesare! Il mio cuore di quindici anni si rivoltava: Ci siamo noi, toccherà a noi questa eredità disonorata, e qualcosa faremo, perchè l'Italia non può finire così. Questa Italia che ebbe in dono tutto — sole, meraviglie di acque e di montagne, genio, dominio santità — e che ha dato tutto a tutti: - il diritto ai popoli, una città santa a Cristo, un nuovo continente dell'Europa, l'arte ai Barbari, la filosofia al settentrione, ed in pochi secoli ha scritto la Divina Commedia, e i Massimi Sistemi, la Somma, e il Principe e ha fatto piangere i cuori del mondo col Canzoniere e coi Canti, colla Norma e colla Traviata, questa Italia, benchè, vinta e stracca non può morire. Non permetteremo che muoia.
   A scuola cosa ci facevano imparare a memoria? L'«Ahi serva Italia di dolore ostello» di Dante, «Italia mia benchè il parlar sia indarno» del Petrarca; «O patria mia vedo le mura e gli archi» del Leopardi — e di straforo si leggeva «la nostra patria è vile» del cidevant Giosuè che avrebbe voluto fermare il sole d'Italia sopra una Repubblica Ghibellina. Null'altro che rampogne e lamentazioni. Chi faceva da Tiresia e chi da Brandano, e quelli che non cercavan la penna nel turcasso di Archiloco tentavano di riappuntare il calamo di Tacito.
   In quella mia superba malinconia non trovavo nulla dove attaccarmi; non c'era maggese pronta per seminazioni eroiche. La storia in mezzo alla quale ci toccava a vivere era mediocre anche nei vestigi della grandezza. Una mattina d'inverno ci rimandaron via da scuola perchè doveva arrivare il Re. Invece di tornare a casa mi incamminai, musando, verso la stazione. Nelle strade maggiori appena una bandiera ogni cento finestre; e bandiere che ciondolavano nell'aria senza vento, quasi vergognose. Non più gente degli altri giorni, e gente che andava per le sue faccende solite col solito passo. Ad un tratto, al principio di via dei Panzani, vedo venirmi incontro due carrozze larghe e nere a due cavalli. Nella seconda, accanto a un generale, un signore col viso grasso e due baffoni bianchi: era il Re, vestito di nero come un notaro. La gente appena si soffermava un momento a guardarlo e non tutti si levavano il cappello. Il Re, stanco, salutava, guardando innanzi a sè cogli occhi ancor fieri ma d'una fierezza temperata e quasi vinta dalla mestizia. Non era un monarca vincente che passa attraverso i suoi popoli in festa: era il Re di Custoza e di Adua, che poco dopo doveva fecondare col sangue innocente le fortune del nuovo Regno.
   Dove attaccarsi? Qual ragione di orgoglio e d'azione poteva crearsi un giovane solo in quel clima di decadimento? L'unità stessa sembrava in pericolo: nel Novantatre i fasci di Sicilia, dopo aver bruciato i Municipi issarono in alcuni luoghi la bandiera inglese; nel Novantaquattro la Lunigiana fu devastata dalla guerriglia; nel Novantotto mezza Italia si sollevò senza saper che volesse e si udì di parlare di uno Stato di Milano. Perfino la vecchia imperatrice Kuang Siu, dopo aver ceduto Un pezzetto di Cina a chiunque la chiedesse, seppe rifiutare all'Italia, nel Novantanove, il golfo di San Men.
   Nel Novantaquattro la lordura segreta delle banche traboccò nei fogli pubblici e si scoprì fino a che punto eran marci i parlamentari: pullularono i Catoni: quello di Milano, Cavallottí, finito nel sangue; quello di Roma, Sbarbaro, nel ridicolo. Le vecchie scelte di Carducci oscuravano sempre un lembo di cielo; Alfredo Oriani, nascosto in Romagna, cozzava coll'ombre sorde; Guglielmo Ferrero scriveva una sua Germania, come Tacito, per contrapporre la fresca Europa del Nord all'esausta Italia. De Amicis il moscio, Rovetta il favoleggiante, Stecchetti il mandrillo erano gli scrittori che adornavano le veglie e le librerie di quella fine di secolo e di regno. Darwin volgarizzato da tutti. Spencer adattato da Ardigò, Marx riacconciato da Loria e Labriola, Nietzsche rivelato da D'Annunzio erano gli abbeveratoi stranieri dove si dissetavano alla meglio le colte mandrie italiane.
   Dove aggrapparsi? Da qual punto camminare per una fase nuova, per una stagione di ristoro? I repubblicani si eran ristretti a riscalducciare coi loro magri corpi il fuoco spento di Mazzini; gli anarchici, incapaci di affilare il pensiero di Stirner, arrotavano i vecchi stiletti carbonari sulla mola dell'ignoranza e dell'invidia: i socialisti guastavano malamente il generoso lievito cristiano affogandolo nel mistone d'una mitologia grossolana, dove figuravano la scienza positiva, il progresso indefinito, il rispetto del numero, della materia, della forza e tutte le altre imbecillità galliche ed ebraiche repugnanti ad ogni intelligenza ben organata.
   Un giovane italiano che avesse avuta la sventura di non nascere ignobile e mediocre si trovava, ai primi del secolo, solo colla sua disperazione ed il suo orgoglio. Era il caso mio. Riempivo la solitudine con l'Unico di Stirner e nutrivo l'orgoglio colle memorie e le speranze d'una maggiore Italia. Anche queste erano strade a me preparate per un futuro riacquisto: perché l'io solitario, giunto al vertice dell'adorazione di se stesso, non può soddisfarsi che negli abissi di Dio e d'altra parte Italia vuol dir Roma e la storia di Roma ha come pernio divino le tombe degli Apostoli.


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